Negli ultimi vent’anni, l’Italia ha vissuto un processo profondo e poco raccontato: la progressiva cessione di aziende strategiche a investitori stranieri, mentre alcune grandi multinazionali hanno scelto di lasciare il nostro Paese. A prima vista può sembrare il normale ciclo del capitalismo globale. Ma una lettura più attenta suggerisce una dinamica ben più profonda: quella di un sistema produttivo che, in assenza di una visione strategica, rischia di smarrire il controllo sul proprio futuro.
Il valore complessivo delle acquisizioni di aziende italiane da parte di gruppi esteri (M&A inbound) ha superato i 42 miliardi di euro nel 2024, con un incremento del 27% rispetto all’anno precedente (fonte: EY M&A Barometer). Dal 2008 a oggi, oltre 250 marchi italiani noti al pubblico sono passati sotto il controllo di holding estere.
Tra le operazioni più rilevanti del biennio 2024–2025:
- Iveco Group: il business dei veicoli commerciali è stato acquisito da Tata Motors (India) per 3,8 miliardi di euro. La divisione difesa è rimasta sotto controllo statale con Leonardo.
- Bialetti: ceduta al fondo lussemburghese-cinese NUO Capital per 53 milioni di euro, nonostante un fatturato annuo di circa 140 milioni.
- Prima Assicurazioni: il 51% è stato acquisito da AXA per oltre 500 milioni. L’azienda, attiva nel settore insurtech, aveva chiuso il 2024 con ricavi pari a 178 milioni.
- Zegna: il fondo sovrano Temasek (Singapore) ha aumentato la propria quota fino al 10%, puntando sulla proiezione internazionale del marchio.
A questo elenco si aggiungono brand storici già “globalizzati”: Gucci, Parmalat, Ducati, Loro Piana, Galbani, Indesit, Buitoni, Peroni, La Rinascente, solo per citarne alcuni.
Ma c’è anche il fenomeno inverso: il disimpegno delle multinazionali estere dall’Italia.
- Vodafone Italia, con ricavi superiori a 4,7 miliardi annui, è stata ceduta a Swisscom e integrata in Fastweb.
- Whirlpool ha lasciato il Paese cedendo gli stabilimenti a Beko (Arçelik, Turchia), e avviando chiusure e razionalizzazioni.
- ArcelorMittal ha rinunciato alla gestione dell’ex Ilva di Taranto, cedendola a una struttura statale: Acciaierie d’Italia.
- Philip Morris e IBM hanno avviato piani di riduzione del personale in Italia nell’ordine del 10–15%.
Questi segnali non possono essere letti isolatamente. Vanno inquadrati in un contesto globale dominato da incertezza, crisi economiche e transizioni strategiche.
Il 2025 si conferma un anno di rallentamento per l’economia europea. In Italia, l’inflazione è in calo, ma l’impatto dei tassi BCE elevati tra 2022 e 2024 si fa ancora sentire. Le PMI restano sotto-capitalizzate, mentre l’allocazione effettiva dei fondi PNRR procede a rilento: solo il 57% delle risorse ha generato impatti misurabili.
Nel frattempo, l’Italia resta ai margini delle grandi strategie industriali europee. Mentre Germania e Francia rafforzano i propri campioni nazionali, l’Italia perde progressivamente il controllo su filiere simboliche e strategiche.
Ma il problema non è solo economico. È anche demografico, educativo, sociale.
L’Italia è il secondo Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone. Età media: 47,7 anni. Tasso di natalità: 6,6 per mille. Il rapporto lavoratori/pensionati è sceso a 1,4. Ciò riduce la domanda interna e mette in crisi il ricambio generazionale del tessuto produttivo. Il sistema educativo fatica a tenere il passo: l’Italia investe solo il 4% del PIL in istruzione, contro una media OCSE del 5,5%. Solo un terzo dei diplomati tecnici trova un impiego coerente. Il tasso di skill mismatch tra i laureati under 30 supera il 32%. Siamo al 23° posto in Europa per competenze digitali tra i giovani.
In questo scenario, è evidente perché tanti investitori esteri preferiscano spostare ricerca, innovazione e leadership in altri Paesi.
E mentre l’Italia arretra, i gruppi asiatici avanzano. Tata, NUO, Arçelik, Temasek: le operazioni più rilevanti del 2025 in Italia portano tutte firme asiatiche. Questi player agiscono con visione di lungo termine, grande disponibilità di capitale e un obiettivo chiaro: acquisire tecnologia, reputazione, canali. A condizioni vantaggiose.
La vera domanda non è “chi ci compra?” ma “perché vendiamo?”
Non è la vendita in sé a rappresentare un problema. È la sistematica assenza di alternative. È la mancanza di investitori nazionali, di fondi patient capital, di strumenti per crescere senza cedere il controllo. È la debolezza del nostro ecosistema. L’Italia resta un Paese ricco di eccellenze industriali: nel manifatturiero, nel design, nel food, nel turismo, nelle tecnologie ambientali. Ma se non proteggiamo queste eccellenze, se non le valorizziamo, se non coltiviamo competenze e visione, diventeremo solo un fornitore di marchi, idee e talenti per altri. La politica industriale non può limitarsi a incentivi a pioggia. Serve una strategia. Serve capitale umano. Serve un nuovo patto tra formazione, impresa e finanza. Perché vendere può essere utile. Ma non sapere perché si vende è il primo passo verso il declino.
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