Il lavoro non è più ridotto al compenso economico, la qualità delle relazioni nel contesto lavorativo e il tema del welfare stanno assumendo un ruolo sempre più importante. “La qualità delle relazioni interpersonali, con i colleghi, i manager, i clienti, è ciò che rende un’organizzazione davvero unica. Mentre lo stipendio e i benefit possono essere facilmente superati da altre offerte, le relazioni non sono replicabili” ci spiega Luca Furfaro, consulente del lavoro con oltre 15 anni di esperienza.
In questa intervista, Luca ci racconta le pratiche che fanno davvero la differenza nella vita delle persone e la sua visione per il futuro del lavoro: un futuro che passa dall’ascolto e dalla capacità di costruire relazioni.
Ci racconta il suo percorso professionale?
Laureato in scienze politiche all’Università degli studi di Torino, prima di intraprendere la strada della Consulenza del lavoro ho svolto diversi lavori. L’esperienza mi porta ad immedesimarmi nelle diverse situazioni reali, portando, al concretizzarsi della mia carriera nella consulenza del lavoro a voler andare oltre il “semplice” inquadramento giuridico.
15 anni fa ho fondato il mio studio professionale individuale che si è nel tempo evoluto in una società tra professionisti che oggi ha clienti nazionali ed internazionali e che opera con realtà di diversi comparti produttivi come boutique della Consulenza del lavoro.
Come professionista ho approcciato l’attività con la volontà di specializzarmi ed il welfare aziendale è stato il principale focus. Nel 2020, in piena emergenza Covid-19, è uscito il mio primo libro sul welfare aziendale, un manuale tecnico dedicato a professionisti del settore. Scrivo per le maggiori testate specializzate in ambito legal HR e sono relatore in diversi convegni.
Sono stato presidente dell’Associazione dei Giovani Consulenti del lavoro di Torino e oggi sono consigliere del Consiglio provinciale dell’Ordine dei Consulenti del lavoro di Torino.
“Il lavoro da offrire, la proposta da accettare. Scelte consapevoli nell’era del welfare” qual è la proposta di valore del libro?
Il valore del libro sta nell’affrontare il tema della remunerazione dei lavoratori da diversi punti di vista e per diversi punti di vista. Oggi le politiche attive soffrono di un grande, ed ulteriore (rispetto alla difficoltà strutturali), problema: la difficoltà di comunicazione intergenerazionale. Il cambiamento continuo sta generando differenze, come sempre accaduto, tra le generazioni ma, in questo caso, la differenza sta nella velocità con la quale si sviluppano tali differenze. Noi cerchiamo di portare un modello, replicabile, adattabile e flessibile per creare il giusto mix remunerativo e per capire quali sono i punti sui quali indagare. Per farlo c’è stato un grande studio dietro che ha coinvolto diversi professionisti. Non ci siamo basati solo sui dati raccolti ma abbiamo voluto andare a parlare con le persone che, tutti i giorni, affrontano questi temi. Lo abbiamo fatto con un taglio multidisciplinare, creando un kit per fare emergere quali sono i bisogni delle persone abbiamo anche evidenziato su quali elementi le organizzazioni devono lavorare per rispondere ai bisogni dei lavoratori.
Secondo lei, quali pratiche aziendali fanno davvero la differenza nel migliorare la qualità della vita delle persone?
Le pratiche che fanno davvero la differenza sono quelle che riconoscono il lavoratore non solo come produttore di valore economico, ma come persona intera, con bisogni emotivi, relazionali, di autonomia e di equilibrio.
Ad esempio, anche uno Smart working reale, e non “telelavoro controllato” con una reale autonomia che combina fiducia, strumenti digitali e accountability.
Ciò che fa la differenza è la capacità dell’azienda di modulare i servizi sulla base delle esigenze dei diversi cluster di lavoratori, non un pacchetto standard per tutti. Il vero salto di qualità avviene quando il middle management è formato e valutato anche su come promuove benessere, non solo risultati.
Nel libro abbiamo riportato esempi di valore con aziende di valore, ma, c’è da dire che esempi meno strutturati si possono trovare anche in piccole realtà.
Quanto conta l’ascolto in un’organizzazione, soprattutto nel dialogo tra azienda e lavoratore?
Il mio mantra, che ripeto fin dal 2018, è che “l’ascolto è la prima forma di welfare”. È una convinzione maturata osservando come, a fronte di una rapida espansione del welfare aziendale, molte aziende abbiano puntato più sull’offerta di strumenti e benefit che sull’ascolto reale delle persone. Ma senza un ascolto autentico, ogni intervento rischia di essere percepito come scollegato dai bisogni reali.
L’ascolto, inteso non come sondaggio annuale ma come processo continuo e bidirezionale, è la base su cui costruire cultura, fiducia e politiche efficaci. È l’ascolto che consente di trasformare i dati in azioni, di creare un patto tra organizzazione e persone, di prevenire conflitti e demotivazione. In molte organizzazioni evolute si parla oggi di people analytics, ma è fondamentale che la tecnologia non sostituisca la relazione, bensì la amplifichi.
Secondo il report “Global Human Capital Trends” di Deloitte (2023), le organizzazioni che promuovono pratiche di ascolto attivo hanno il 64% in più di probabilità di ottenere un elevato engagement dei dipendenti e il 42% in più di probabilità di trattenere i talenti a lungo termine.
Il concetto di “welfare” è spesso tradotto in benefit materiali, ma nel libro si parla anche di benessere più profondo. Quanto pensa che la qualità delle relazioni sul lavoro incida sul benessere?
Nel libro sottolineo come la retribuzione, i benefit e la qualità delle relazioni abbiano un impatto variabile a seconda della percezione soggettiva dei lavoratori. Non è sufficiente misurare il welfare solo in termini quantitativi: ciò che davvero fa la differenza è l’esperienza quotidiana che le persone vivono nel luogo di lavoro.
La qualità delle relazioni interpersonali, con i colleghi, i manager, i clienti, è ciò che rende un’organizzazione davvero unica. Mentre lo stipendio e i benefit possono essere facilmente superati da altre offerte, le relazioni non sono replicabili. Quando le relazioni sono positive, autentiche, basate su fiducia e rispetto, si genera un senso di appartenenza che nessun incentivo materiale può eguagliare.
Il clima relazionale è il principale predittore di benessere organizzativo, anche più della retribuzione. Lavorare in ambienti relazionalmente tossici, al contrario, può annullare ogni altro beneficio percepito.
Qual è un segnale concreto che un’organizzazione sta davvero investendo in capitale umano, e non solo facendo employer branding?
Il discrimine tra marketing e cultura è la coerenza tra dichiarazioni e comportamenti. Un’organizzazione che investe realmente nel capitale umano si riconosce da indicatori strutturali e misurabili: processi di formazione continua, sistemi di ascolto partecipativo, piani di carriera trasparenti e politiche di mobilità interna. Uno dei segnali più concreti è la qualità del clima interno, rilevabile anche attraverso il turnover patologico, la soddisfazione espressa con people analytics, o il numero di promozioni interne. Se a fronte di una comunicazione orientata all’attrazione dei talenti non esiste una cultura reale di cura delle persone, ci troviamo davanti a un fenomeno di “welfare washing”.
Qual è il messaggio principale che si vuole trasmettere attraverso questo libro?
Il messaggio è doppio, verso le aziende e verso i lavoratori. Per le aziende vogliamo comunicare di come oggi la remunerazione sia più complessa di prima, mentre per i candidati vogliamo evidenziare come sia necessario, proprio per questa complessità delle modalità di retribuzione, chiedersi veramente che cosa si vuole.
Il libro nasce con un duplice intento, rivolto sia alle aziende sia ai lavoratori.
Alle organizzazioni vogliamo comunicare che la remunerazione oggi è diventata multidimensionale. Non si tratta più soltanto di salari, ma di riconoscimento, significato, possibilità di crescita, equilibrio vita-lavoro. Occorre costruire proposte di valore che sappiano rispondere a questi nuovi bisogni.
Ai lavoratori vogliamo invece dire che proprio per questa complessità è diventato fondamentale chiedersi davvero che cosa si cerca in un’esperienza lavorativa. La consapevolezza diventa la chiave per fare scelte coerenti, evitando di rincorrere esclusivamente il miglior pacchetto retributivo senza considerare il contesto, la cultura e la compatibilità personale. Per questo motivo nel libro abbiamo inserito un kit pratico che offre le domande da porsi per la scelta di un lavoro.
In sintesi, vogliamo comunicare che scegliere e offrire lavoro non è più un esercizio contrattuale, ma un atto di visione e responsabilità reciproca.
Quali sono le principali sfide in Italia che le organizzazioni devono affrontare
Le sfide principali riguardano come primo aspetto l’equità, costruire pacchetti retributivi che siano oggettivi e meritocratici, significa evitare discriminazioni (come il gender pay gap), ma al contempo sarà necessario che tali sistemi siano capaci di adattarsi ai bisogni individuali.
Sarà necessaria la creazione di modelli di lavoro ibridi e flessibili senza generare precarietà emotiva o discontinuità nei percorsi professionali.
Gli HR dovranno continuare ad integrare l’intelligenza artificiale, il digitale, ma senza perdere di vista il ruolo della relazione, dell’ascolto e della cura.
Al momento, in Italia, secondo l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano (2023), solo il 27% delle aziende ha implementato sistemi strutturati per gestire in modo personalizzato la total reward dei dipendenti, evidenziando una sfida ancora aperta sul piano della flessibilità equa.
Come immagina il mercato del lavoro tra 10 anni e in quale direzione andare per adattarsi ai cambiamenti?
Il mercato del lavoro tra 10 anni, ma anche con un orizzonte temporale inferiore, sarà ancora più fluido, disintermediato e soggetto a riconfigurazioni continue. Il concetto stesso di “posto fisso” sarà sostituito da quello di esperienza professionale evolutiva. Per questo, lavoratori e organizzazioni dovranno sviluppare una capacità fondamentale: l’adattabilità consapevole.
Non si tratterà solo di reagire al cambiamento, ma di anticiparlo e co-progettarlo. Le competenze trasversali, come il pensiero critico, la capacità di apprendimento continuo, la gestione della complessità, diventeranno centrali quanto (e forse di più) delle competenze tecniche.