Valentina Marini è una professionista con un obiettivo chiaro: seguire progetti nelle organizzazioni, valorizzando le persone. Con una formazione nelle Scienze della Formazione e oltre 15 anni di esperienza tra aziende, consulenza e libera professione, oggi affianca manager, dipartimenti di comunicazione e team HR aiutandoli a costruire contesti di lavoro più umani. In questa intervista affronta alcuni dei temi trattati nel libro “Il lavoro da offrire, la risposta da accettare. Scelte consapevoli nell’era del welfare” pubblicato da Franco Angeli, portando uno sguardo su come sta cambiando il mondo del lavoro, cosa cercano le persone nel contesto lavorativo e come riscoprire la reciprocità.
Può parlarci di cosa la appassiona di più oggi?
Da sempre sono appassionata di persone e relazioni. Molta dell’attività che svolgo ruota intorno alla formazione: ho progettato ed erogato centinaia di corsi sia per aziende, che per Università e Business School, sugli stessi temi che mi vedono impegnata come consulente nelle organizzazioni e sullo sviluppo delle competenze soft.
Amo scrivere, sui social, nel mio blog, su alcuni magazine online quando capita e a volte nei libri. Grazie alla “scrittura”, LinkedIn® nel 2022 mi ha riconosciuta “Top Voice – Lavoro” (riconoscimento specifico per le pubblicazioni sul social LinkedIn®).
Mi parli del suo contributo nel libro “Il lavoro da offrire, la risposta da accettare. Scelte consapevoli nell’era del welfare”.
Il libro è stato scritto a più mani, un bell’esercizio tra noi tre, io, Luca Furfaro e Filippo Poletti; professionisti molto diversi sotto tanti aspetti, accomunati dall’idea che metterci insieme per questo progetto editoriale potesse “disegnare” una visione di valore proprio per quei differenti sguardi ed esperienze quotidiane e professionali. Ognuno di noi tre ha seguito una specifica parte. Luca, il “tecnico”, esperto, consulente del lavoro, che rende più semplice per tutti noi affrontare temi come le retribuzioni e il welfare; Filippo, il più noto vista la sua grande attività di giornalista e le pubblicazioni su LinkedIn, che ha dato voce alle imprese, facendo emergere interessanti spunti da cui farsi ispirare.
Io nelle mie parti ho sistematizzato alcuni degli stimoli che ricevo dalle persone che incontro nelle mie esperienze lavorative e/o ricevuti in rete (pubblicando io online frequentemente su temi di lavoro); ho unito a questi spunti ed esperienze, alcune ricerche e dati provenienti da diverse fonti pubbliche. Il tutto con l’obiettivo di riflettere su come stanno cambiando gli equilibri nella domanda e ricerca di lavoro, facendo emergere quelle che sembrano essere priorità per le persone e per le organizzazioni. Parlo di diversi temi: dal personal ed employer branding, fino all’importanza per ognuno di noi di curare la formazione e l’aggiornamento costante; evidenziando spesso un argomento centrale a 360 gradi: la comunicazione (per organizzazioni e per professionisti).
Quali aspetti dovremmo mettere al centro quando si parla di lavoro del futuro?
Lavoro e futuro: come si fa a non pensare come prima cosa alla tecnologia? A me viene come associazione spontanea, un po’ perché nel futuro c’è sempre una visione di innovazione e l’innovazione ai giorni nostri è molto guidata dalla tecnologia. E un po’ perché è la nostra realtà ormai da tanti anni: giorno dopo giorno assistiamo a cambiamenti portati dalla tecnologia che impattano, nel bene e nel male, nelle nostre abitudini personali e professionali.
Però, come aspetto da mettere davvero al centro del lavoro, direi, anche se è una parola a volte troppo spesso usata, l’ascolto. Ascolto di noi, del contesto, dei cambiamenti, del presente, del futuro. L’ascolto, dentro al quale ci sono l’osservazione e la curiosità e, soprattutto, dal quale deriva la necessaria consapevolezza che serve per non farsi cogliere impreparati dalle “normali” evoluzioni (sia come professionisti che come aziende, ancora una volta).
Pensiamo per esempio a quanto oggi sia importante “ascoltare” l’intelligenza artificiale. Come sempre, non è la chiusura la risposta. È la conoscenza a portare a un più consapevole rapporto con il cambiamento in atto, e che quindi ci aiuta a evitare i rischi di farci perdere di spendibilità nel caso dei lavoratori e di “desiderabilità” nel caso delle organizzazioni. Ascolto, quindi, anche per le organizzazioni: sintonizzarsi davvero con il cambiamento delle priorità e dei valori di chi lavora, per proporre esperienze e managerialità allineate a quella nuova era del lavoro che è iniziata e che ci sta traghettando verso un diverso modo di essere nel lavoro e di viverlo, che abbia al centro il benessere delle persone e l’impatto sociale. E poi l’ascolto, parlando specificatamente di welfare, come sostiene Furfaro, “è la prima forma di welfare”.
La parola “reciprocità” è spesso citata nel libro. Come possiamo riscoprirla nel mondo lavorativo?
“Cosa siamo disposti a offrirci davvero, reciprocamente?” Questa è una domanda che sono io a porre nel libro, parlando a persone e a organizzazioni contemporaneamente. E devo dire che sono particolarmente legata a questa riflessione. Più la scrivevo e più mi convincevo della sua utilità, almeno per me e nella mia visione del lavoro: non dovrebbe esserci chi vince e chi perde in una collaborazione sana, solo un più equilibrato punto di incontro.
Credo importante tornare a valorizzare la reciprocità, per rendere il rapporto con il lavoro più appagante e completo in una dimensione di scambio costruttivo da entrambe le parti. È un rapporto di negoziazione, quello fra persona e lavoro, dove “perde” chi dimentica, o trascura, gli interessi di una delle due parti. Nella reciprocità del rapporto, va ricercato da entrambe un corretto bilanciamento tra le rispettive priorità, che metta al centro la sostenibilità. In sintesi riscoprire “il legame” alla base del rapporto, per averlo di conseguenza più equilibrato, costruttivo e rispettoso da entrambe le parti.
Cosa sta davvero cambiando oggi nel modo in cui le persone vivono e cercano il lavoro?
Il lavoro, come anticipato e come forse ci è evidente ogni giorno di più, sta cambiando di significato e si sente un diffuso bisogno di modificare la sua narrativa e le sue esperienze. C’è e ci sarà il bisogno di una visione strategica che combini una nuova valorizzazione, un differente racconto e modo di vivere il lavoro, con politiche aziendali che rispondano ai bisogni moderni delle persone lavoratrici, come flessibilità, crescita personale e benessere.
Se un tempo, infatti, la scelta di un lavoro sembrava principalmente una questione di stipendio e stabilità, oggi il panorama è ben più complesso, con diversificate priorità e bisogni che emergono sia per i lavoratori che per le aziende. La ricerca di un buon equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, tra autonomia e sicurezza, si alterna alle necessità economiche, di benessere, crescita personale e sostenibilità.
Formazione, welfare e sostenibilità: sono davvero priorità o rischiano di diventare solo delle etichette?
Questa è una domanda che si devono fare le imprese, consapevoli dei rischi che soprattutto oggi si possono affrontare non vivendole come priorità (peggio ancora se perseguite per moda o per “washing”, come spiega bene Luca Furfaro nelle sue parti). Mi spiego meglio. Da varie ricerche queste tre (formazione, welfare e sostenibilità nel suo significato a 360 gradi e con un forte focus su quella S di ESG) tornano tra ciò che le persone “pesano” come valore per loro in cambio della prestazione. Sta a ogni azienda ricercare leve (anche in questo caso sostenibili) per far in modo di riempirle di significato e non lasciarle come semplici slogan o trend da cavalcare.
Tra i tre, il welfare può essere il più complesso da implementare per via degli investimenti economici necessari, ma Furfaro spiega bene come oggi sia importante e fattibile ragionare su forme di welfare più “intangibili”, diverse modalità su cui pensare offerte ancora più competitive rispetto ai competitor (è più facile portare via una persona con una retribuzione più alta; più complesso se si compete con un’esperienza lavorativa di significato, con offerte di valore difficilmente replicabili). Come sostenuto nel libro, non è mai la scelta giusta quella di accendere troppe iniziative e tutto insieme: serve scegliere, con coerenza. Coerenza, parola che sottolineiamo con grande forza nel testo.
Come è cambiato oggi, secondo lei, il concetto di “buona proposta di lavoro”? Quali elementi contano oggi più di ieri?
“Buona proposta di lavoro” penso a come in passato fosse più facilmente identificabile. Per anni e per tanti, il buono è stato associato al “posto fisso” (ne abbiamo esempi molto noti, ironici – e iconici – anche nella cinematografia italiana). Oggi non è più così scontata questa associazione, anzi. Stiamo assistendo al fenomeno di un più normalizzato cambio frequente nei lavori e nelle ambizioni. Questo ha comportato anche una diversa lettura dei cambi o dei “buchi nei CV”: non più visti così negativamente come in passato.
Per me “buona” oggi è ciò che risponde alle esigenze delle singole persone, che sono per loro natura diverse. Quindi dare una definizione mi risulta difficile, se non proprio impossibile. Non esiste una formula universale e adatta sempre, per tutti e in ogni settore. Come emerge anche nel libro, le risposte sono molto più complesse e dipendono da una molteplicità di fattori: settore, attività professionale, esigenze personali, valori emergenti, modelli organizzativi, propensioni personali, ecc.
Quello che però sta cambiando è che non si tratta solo di stipendio o stabilità, come in passato. È un insieme di fattori che comprendono il benessere, la sostenibilità, la crescita personale e l’equilibrio vita-lavoro. Non è detto che lo stipendio più alto possa garantire una proposta migliore, così come buone condizioni nell’ambiente lavorativo possono non essere sufficienti quando la retribuzione non è commisurata e adeguata al costo della vita e/o ai propri bisogni. Questo tema legato alla retribuzione, appunto, è sempre più sentito vista l’inflazione e i rincari che impattano sulla vita di ognuno.
Se dovesse lasciare un messaggio o un consiglio prezioso alle persone che oggi si trovano a fare una nuova scelta professionale o stanno ripensando al loro percorso, quale sarebbe?
Da persona che ha spesso cambiato, direi come prima cosa di evitare di cambiare quando si sta già troppo male. Intervenire prima perché, quando si sta già troppo male, si rischia di prendere decisioni non troppo ragionate. “Tra il bene e il male” ci sono tante fasi e segnali ed è lì che si potrebbe provare a fare un salto. Ma è solo un punto di vista il mio. Questo significa, darsi il tempo giusto per cambiare. Tempo che serve:
- per ascoltarsi bene e riempire di significato il proprio desiderio di cambiamento (questo viene spiegato molto bene nei contributi presenti all’interno della terza parte del libro – il KIT, la parte pratica – penso ad esempio ai contenuti dei coach Martina Sconcerti e Valentina Fantuzzi);
- per costruire: relazioni, strade, possibilità (costruzione che serve soprattutto a chi sta pensando, ad esempio, un cambio verso la libera professione).
Cosa questo libro vuole lasciare alle nuove generazioni e a tutti i lettori?
Se è vero che oggi nelle scelte lavorative, per tante persone, incidono sempre di più la flessibilità e la qualità, sono tanti altri anche i fattori che influiscono. Il libro vuole lasciare stimoli di riflessione e soprattutto domande per ragionare concretamente sulla propria soddisfazione. Le risposte sono personali e relative e non vogliamo in alcun modo semplificare un tema così importante. Ma per raggiungere la soddisfazione nel lavoro, bisogna sapere cosa si desidera, quali sono le nostre priorità e, contemporaneamente, conoscere “come sta andando il mondo”, avere consapevolezza e sapere cosa c’è fuori (a volte ci si lamenta e non sempre si ha chiaro ciò che permette di fare un confronto utile per valutare più oggettivamente la propria situazione).
Anche questa può sembrare retorica, spesso, però, i problemi nascono dal ricercare qualcosa che non si riesce bene a focalizzare dentro di sè o dall’idealizzare situazioni distanti e meno note. Noi pensiamo che per focalizzarci e vedere un panorama più ampio, le domande siano un’ottima “lente di ingrandimento”. E qui forniamo più lenti per riflettere su di noi e per osservare il contesto, dentro e fuori e le organizzazioni.