Cosa consigliano i manager ai giovani nel 2025: meno università, più esperienze
Dai sondaggi di Business Intelligence Group 2024 e 2025 emerge un cambio di prospettiva: meno accademia esclusiva, più apprendimento pratico e vita reale.
di Gianni Bientinesi – Presidente di Business Intelligence Group
Cosa consiglierebbe un manager a un giovane di 18 anni su come investire i prossimi quattro anni della propria vita? A giudicare dai risultati dei sondaggi condotti su LinkedIn da Business Intelligence group nel 2024 e nel 2025, la risposta è chiara: l’università resta la via principale, ma non più l’unica.
Nel 2024, su 154 voti raccolti, il 51% dei manager suggeriva di “andare all’università”, il 22% di “fare esperienze di vita” e il 23% di “imparare un mestiere”. Nel 2025, su 111 voti, l’università scende al 47%, le esperienze di vita salgono al 24% e il mestiere al 27%.
Non è un ribaltamento, ma una trasformazione culturale silenziosa. Chi guida le imprese e le organizzazioni non mette in discussione il valore della formazione accademica, ma riconosce che il sapere, da solo, non basta più.
Università: da certezza a punto di partenza
L’università rimane un pilastro. È consigliata ancora da quasi la metà dei rispondenti, ma il tono del consiglio è cambiato. Non si tratta più di una scelta obbligata, ma di una base solida su cui costruire esperienze successive.
Molti manager hanno vissuto in prima persona la transizione da una società industriale a una società della conoscenza, dove il titolo accademico era condizione necessaria per accedere a ruoli di responsabilità. Oggi, nel pieno della trasformazione digitale e della crisi delle competenze, la laurea è una tappa di un percorso continuo di apprendimento, non il traguardo.
L’università forma la mente e il metodo; ma è nel mondo reale che si forma la persona.
Esperienze di vita: la nuova palestra delle competenze trasversali
Il 24% dei manager suggerisce di “fare esperienze di vita” come scelta strategica nei primi anni adulti. È un segnale forte. Indica la consapevolezza che le soft skill – la capacità di adattarsi, comunicare, collaborare e gestire l’incertezza – nascono fuori dai contesti accademici.
Viaggiare, lavorare all’estero, fare volontariato o cimentarsi in un progetto personale sono esperienze che generano valore professionale nel lungo periodo. Il sociologo Anthony Giddens lo definiva “riflessività dell’agire”: la capacità di costruire identità e competenze attraverso l’esperienza diretta.
In un mondo in cui le carriere sono frammentate e non lineari, imparare a muoversi tra situazioni diverse è una competenza chiave. E i manager, che ne vedono quotidianamente il peso nei team e nei processi aziendali, lo sanno bene.
Imparare un mestiere: il ritorno della concretezza
L’aumento di preferenze per “imparare un mestiere” – dal 23% al 27% in un anno – racconta un cambio di mentalità profondo. Non è un ritorno nostalgico alle professioni manuali, ma un riconoscimento della centralità delle competenze pratiche e tecniche.
La digitalizzazione, l’industria 4.0 e la transizione energetica stanno ridefinendo il concetto stesso di mestiere. Oggi il mestiere può essere il programmatore, il tecnico della robotica, il data analyst, il manutentore di impianti ad alta tecnologia, l’artigiano digitale. È l’idea che il sociologo Richard Sennett, nel suo saggio L’uomo artigiano, riassumeva così: “Il lavoro ben fatto è un modo di pensare”.
Il mestiere non è l’opposto della cultura, ma una forma di cultura incarnata nel fare. Consigliare a un giovane di impararne uno significa, per un manager, valorizzare la concretezza, la pazienza e la competenza tecnica come risorse strategiche per il futuro.
Un equilibrio nuovo tra sapere e fare
Il confronto tra i due sondaggi mostra un trend di fondo: i manager italiani stanno passando da una logica binaria (“studio o lavoro”) a una logica integrata (“studio e lavoro”). Il sapere teorico e la pratica non vengono più visti come mondi separati, ma come componenti interdipendenti di un unico processo di crescita.
La vera evoluzione non è nella risposta, ma nel ragionamento che la sostiene: il futuro non si costruisce scegliendo una strada, ma imparando a combinarne più di una.
Cosa dicono davvero i manager
L’interpretazione sociologica dei dati è chiara: chi guida le imprese non vuole più giovani “solo competenti”, ma giovani completi. Persone capaci di collegare conoscenze teoriche, esperienze di vita e abilità pratiche. Non servono profili perfetti, ma menti flessibili.
L’università fornisce metodo e profondità, l’esperienza insegna resilienza, il mestiere costruisce competenza. Tre dimensioni che, insieme, definiscono il capitale umano di domani.
Il messaggio per il Paese
I due sondaggi non sono statistiche accademiche, ma un piccolo termometro della cultura manageriale. Dicono che il mondo delle imprese è pronto a un cambio di paradigma nella formazione: dalla trasmissione alla trasformazione, dall’aula al laboratorio, dal titolo all’esperienza.
Se il futuro del lavoro sarà sempre più fluido, il futuro della formazione dovrà esserlo altrettanto. E il miglior consiglio che un manager possa dare a un diciottenne resta forse questo: “Non scegliere una sola strada. Impara a costruirle tutte.”


